Io, se nasco un’altra volta, farò lo stesso mestiere della prima vita: l’insegnante. Voglio concedermi una seconda possibilità. Mi preparerò daccapo per farlo in maniera tutta diversa. E’ inutile chiedermi che cosa farò: se lo sapessi l’avrei già fatto la prima volta. So solo che la mia sensazione è che bisogna rovesciare la scuola da capo a fondo. L’immagine è quella di un grande sacco pieno di cianfrusaglie né belle ne’ divertenti, e dopo aver cominciato a esaminare gli oggetti ad uno ad uno, capisco che sto perdendo tempo e che è meglio ricominciare da zero. Così si prende il sacco per i due angoli del fondo e lo si scuote fino a svuotarlo del tutto. Per la ricostruzione, per prima cosa bisogna costruirsi delle antenne finissime, sensibilissime, capaci di udire distintamente anche ad una certa distanza. Servono per ascoltare ciò che dicono i bambini, per capire che cosa succede nella loro vita, per scrutarli, per sapere di che hanno bisogno..I bambini vanno a scuola. Dai 3 ai 5-6 anni all’asilo, se vogliono. O meglio, se vogliono le loro famiglie. Ma i nomi scuola, asilo, e simili, non sono nomi loro, sono nomi usati dalla gente di casa e, appunto, di scuola. Chissà che nomi userebbero loro. Per questo bisogna usare le antenne. Magari userebbero espressioni semplici, tipo: casa dei tanti bambini, ma magari gli andrebbe più a genio chiamare la scuola “Ernesto” chi lo sa perché.
Ma queste son sciocchezze che mi servono per introdurre il discorso; si trovano già nei libri di scuola per bambini. La scuola alternativa. Dalla parte degli alunni. Se ne parla da molti anni, ma non cambia niente. Io non vorrei fermarmi alla scuola alternativa, si sa bene che stringi-stringi è uguale a quell’altra. Vorrei arrivare ad una scuola che riuscisse a capovolgere la scuola.
Ma mica è facile, ci hanno provato in tanti. Forse però altri non hanno avuto lo stesso principio che ho io, quello di buttare tutto. Buttare via soprattutto tutte le cose di cui si può provare a fare a meno. Per esempio la noia. Oppure la paura.
Ecco, la paura. Questo è il primo punto fermo dei miei futuri cambiamenti. Quanti bambini/ragazzi avete conosciuto che avessero con la scuola un rapporto disinvolto, disteso, padrone della situazione in cui si vengono a trovare? Giusto alla scuola materna (che ingombrante quel nome) magari nei primi anni delle elementari, ma poi basta; ohibò, si deve lavorare. E a volte si lavora anche bene, uno si diverte ad imparare a fare e a dire cose che prima non sapeva. Si diverte? Difficile che proprio si diverta. Certe volte succede, ma la campanella è sempre un sollievo. Raramente è il divertimento o l’interesse che regolano la vita scolastica. E’ la paura (almeno dalle medie), è il patema d’animo, il “maledetto chi ha inventato la scuola.” E ancora: lo scappare al parco pubblico saltando almeno un’ora, il farsi la falsa giustificazione con le proprie mani. E una volta in classe sottostare alla crudeltà del “mi interroga, no, per oggi sono salvo, ma domani si ricomincia…” ma anche prima di domani. Nel pomeriggio ci sono i compiti, altro supplizio che coinvolge e punisce tutta la famiglia. Ma insomma, perché la scuola deve portare tanta sofferenza? E’ proprio indispensabile tutto ciò?
Don Milani ne aveva inventate di carine; come, per esempio far preparare le lezioni dai bambini più grandi che poi le spiegavano agli altri. Niente paura di compiti e interrogazioni: si lavorava solo a scuola, dove
I bambini si fermavano anche per ore e ore. Ma questo progetto (della Scuola di Barbiana) aveva lo scopo del riscatto sociale, dello strappare i bambini al lavoro coatto nei campi e all’ignoranza.
Non risponde al mio desiderio di inventarmi qualcosa per alleggerire la vita scolastica dei suoi patemi e delle sue ansie. Forse, per ottenere quello scopo, di vite ce ne vogliono almeno 3...